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"Il Ritorno - Boìcu e altre storie" di Romano Asuni

Quando la Memoria è protagonista
Borgosesia (VC) - 16 marzo 2008
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alle Radici

di Romano Asuni - n. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18 - 19

L'autore di «Il Ritorno - Boìcu ed altre storie», splendida raccolta di racconti che diventano romanzo pubblicata in eBook ed Ex Libris, dialoga con i lettori de L'ISTRICE lungo il filo della memoria. Prosegue e rinnova così il discorso aperto dal suo libro che segna il felice esordio nella narrativa di questo famoso giornalista che dalla Sardegna è approdato professionalmente a Milano diventando una delle grandi firme Amica, laDomenica del Corriere, il Corriere d'Informazione fino a dirigere Salve, il mensile di medicina e salute della RCS. Naturalmente i lettori di queste sue note periodiche non possono lasciarsi sfuggire la lettura del suo libro che può giungere in pochi click sullo schermo del vostro computer oppure arrivare per posta a casa in una Copia Ex Libris, in volume stampata appositamente per chi la acquista.
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Il Maestro di musica

  Arrivava ogni mattina alle otto in punto, né un minuto in meno (“Non voglio regalare a quelli la mia giornata”), né uno in più (“Non ho mai rubato niente a nessuno”). Si capiva per questo perché lo chiamassero “il segnale orario” e perché avesse fama di non avere proprio un buon carattere. In realtà era solo un brontolone che si riteneva in prestito all’ufficio del Comune, dove svolgeva le mansioni di ufficiale d’anagrafe, con modi sbrigativi e una splendida grafia svolazzante che molti gli invidiavano. Epiche però erano le sue liti con qualche genitore che voleva affibbiare al suo neonato un nome di battesimo appena fuori dell’usuale (“E cos’è questo Massimiliano? Massimo non basta? Ma poverino, pensa che tra qualche anno, quando lo chiamerai, prima che tu abbia finito di recitare tutto il suo nome lui sarà già uscito……E poi non ci sta neppure nella riga. Allora, scriviamo Massimo?”). Così aveva ribattezzato a modo suo gran parte dei bambini del paese, perché in pochi se la sentivano di opporsi alla sfuriata catarrosa del Maestro, come lo chiamavano tutti, il quale oltretutto certificava la sua autorità esibendo ogni giorno, a tutte le ore, estate e inverno, un’elegante cravatta a farfalla nera su una camicia immacolata e un abito grigio antracite. Chi non lo conosceva, in tempi in cui una normale cravatta era riservata alle feste comandate e ai funerali, poteva pensare a un eccentrico fuori dal mondo. Chi lo conosceva, però, sapeva bene da dove nasceva quell’irrefrenabile eccentricità.
  Guglielmo Murgia, il Maestro, era un musicista. Sì, prestato agli uffici comunali, perché in qualche modo bisogna pur vivere, ma distinto da tutti quelli che vi razzolavano dentro dalla sua tenuta impeccabile e da una pipa che esibiva raramente con la quale però profumava di tabacco pregiato tutti i corridoi che percorreva. Era nato poverissimo, in un paesino vicino, figlio di un poeta dialettale che lo lasciò orfano a 11 anni. Sembrava l’avvio di una storia disperata e strappalacrime se non si fosse tenuto conto del caratterino che già da poco più che adolescente il futuro Maestro cominciava a manifestare. Incuriosito dalla banda musicale del paese, passava tutti i momenti liberi che gli lasciava il suo “lavoro” di garzone nella bottega di uno zio, a seguirla, chiedere chiarimenti, infastidire tutti, fin quando per levarselo di torno il trombone solista “Burrugara”, che di nome faceva Riccardo, non gli sbatté in mano un vecchio clarinetto che stava a malapena insieme col fil di ferro e gli intimò: ”Vuoi suonare? Impara”.
  Fu un amore a prima vista. Nel giro di qualche mese il ragazzino rompiscatole aveva già trovato il tempo e il modo per capire come da quell’oggetto strano e arrugginito che gli avevano messo in mano potesse nascere un suono che cominciava a somigliare a quelli che sentiva dalla banda, quando faceva le prove. E la sera, in quelle che venivano pomposamente chiamate lezioni di teoria, faceva scorrere furtivamente le dita lungo la canna del clarino, quasi a simulare un diesis o un bemolle che esistevano al momento solo nella sua testa. La sua straordinaria predisposizione non era però sfuggita all’occhio lungo di un musicista che da quelle parti era ritenuto una vera autorità, il maestro Rachel, del quale si diceva che avesse composto musiche che si eseguivano perfino nella cattedrale del vicino capoluogo. E visto che arrotondava i suoi magri guadagni dirigendo le bande dei paesi circostanti, in occasione delle ricorrenze, talvolta ne rinforzava le schiere scegliendo fra i giovani quelli che gli sembravano più promettenti. Così, quando Santino aveva dovuto dare una mano a vendemmiare, proprio durante la festa dei santi Cosma e Damiano, il flicorno era passato in mano a Venanzio, che era molto giovane ma prometteva bene. E così gli altri, ciascuno a suo tempo. Con Guglielmo, però, il discorso fu diverso. Al maestro Rachel non era sfuggita la straordinaria rapidità con la quale il ragazzo apprendeva e neppure le pedate stizzite, di rabbia e d’invidia, che gli riservavano i suoi compagni. Così decise di tagliare la testa al toro (lui diceva “…al topo…”, ma fa lo stesso) e il giorno in cui Teodoro, il primo clarino, dovette aiutare ad imbiancare la casa del vicino, che con lui aveva fatto altrettanto, chiamò sicuro:” Murgia! “. E gli consegnò un clarinetto nuovo, chiedendogli soltanto:”La parte la sai, vero?”. “A memoria”, rispose il ragazzo arrossendo.
 Alla fine dell’estate, vincendo le resistenze della madre, lo iscrisse al Conservatorio e, dopo qualche anno, ebbe le conferma d’aver trovato il suo successore. Il piccolo Murgia, a poco più di vent’anni era già considerato uno dei giovani musicisti più promettenti della regione, appena qualche anno dopo, appena diplomato, vinse il concorso nazionale per primo clarinetto solista e vice direttore della Banda Musicale di Reggio Calabria, una città del Continente, capoluogo, allora, di regione, ma dall’altra parte del mondo. Non fece passare molti mesi prima di ringraziare e tornare a casa. Dove lo accolsero, a dire il vero, piuttosto tiepidamente. Ebbe un posto da secondo clarinetto nell’orchestra sinfonica del Liceo Musicale del capoluogo e, poiché si era coperto le spalle facendo apposita domanda,visto che con la musica si faceva fatica a mettere insieme il pane e il formaggio, un impiego al Comune del paese. Che voleva dire radici solide e definitive e uno stipendiolo che lo avrebbe accompagnato per il resto della vita.
  Nella sua banda suonava sempre, ogni volta che lo chiamavano, cioè in tutte le ricorrenze, e intanto mise su casa e si sposò con una continentale, la signora Marina, che tutti chiamavano confidenzialmente “la signora Marinetta”, anche perché era di casa in quasi tutti gli angoli del paese, per il mestiere che praticava, l’ostetrica, o “levatrice” come dicevano, un incarico che prima di lei avevano svolto solitamente le parenti strette o le vicine di casa. A questo punto Guglielmo poteva ritenersi soddisfatto, pensava chi non lo conosceva, ma in realtà inseguiva altre cose. Ad esempio aveva cominciato a comporre. Risentiva in mente e nelle orecchie le nenie che suo padre e gli altri “cantadores” improvvisavano nelle sere d’estate sui palchi ornati di mirto e menta con la folla di qualche centinaio di persone, gran parte delle quali si erano portate le sedie da casa. E riascoltandole le traduceva con gli strumenti che la musica gli aveva messo in mano e che a lui ora sembravano come i numeri che aveva iimparato bambino: uno-due-tre, mi-fa-sol, tre-quattro-cinque, sol-la-si. Facile, no?
  Il giorno che il maestro Rachel morì, Guglielmo prese in mano il clarinetto e suonò a lungo, solo, in casa, mentre la sua prima bimba dormiva e la moglie era fuori per una visita Era il suo omaggio a un maestro indimenticabile e insieme un arrivederci a uno strumento che, lo sapeva, avrebbe suonato sempre più di rado. Tre giorni dopo vennero a offrirgli la direzione della banda musicale. Fece soltanto una domanda:”Ma la dirigo a modo mio, vero ?” Che voleva dire: nessuna intromissione, nessuna raccomandazione, ad esempio per il bombardino nipote del vicesindaco, che confondeva i diesis con i bemolle, niente stravizi fin quando non si era finito il concerto e poi ciascuno andasse a impiccarsi con la corda che preferiva, a casa sua o altrove. Non fece esempi, ma tutti capirono e annuirono. Il primo giorno di prove si presentò ai componenti della banda, titolari e riserve, con un semplice “buonasera a tutti”. Ebbe un indistinto brontolìo come risposta e volse intorno gli occhi che sembravano anticipare il temporale che si annunciava, giù verso il mare. “E allora- replicò con un tono più alto- è entrato l’asino di Michele ?” Il più coraggioso, che era anche uno dei più anziani, che lo aveva visto crescere, gettò lì d’un fiato: ”E’ che non sappiamo come dobbiamo chiamarti”. Guglielmo chinò lo sguardo in direzione della pedana sulla quale era salito e sibilò:”Maestro, fino a quando sono qua sopra chiamatemi maestro perché io dirigo e voi eseguite come vi dico io. Quando scendo da qui chiamatemi come cazzo vi pare. Ma con rispetto”.
Esordirono con un inno maestoso: “Noi vogliam Dio”, che si inoltrava dall’andante della strofa per esplodere nella gloria del ritornello con i bassi che gareggiavano con le trombe e i clarini nell’accordo finale, mentre la processione si avviava lentamente verso la chiesa. E fu allora che il maestro si voltò verso la folla che seguiva il simulacro della Santa patrona e si mostrò col farfallino nero che svettava sullo sparato bianco, quella che da quel momento in poi sarebbe stata la sua divisa. Dopo l’esordio ci furono altri concerti, la sera con il palco illuminato, la folla parte seduta, parte pazientemente in piedi nella grande piazza della Chiesa, col campanile che vegliava dall’alto e le bandierine di carta che sventolavano sulle note dell’ouverture de “La Gazza Ladra” o del delicato minuetto del “Rigoletto”. Quando il concerto doveva essere impegnativo, o per la ricorrenza o perché lo richiedeva il presidente del comitato dei festeggiamenti, che alla fin fine era quello che pagava l’esibizione, comparivano pure in repertorio brani di alto rango come “La Traviata” o il “Va Pensiero” che, quando Bossi e la sua Lega erano meno che uno svolazzo di maestrale, qualcuno fra il pubblico si azzardava pure ad accompagnare col canto, subito zittito dai vicini e da un impercettibile movimento laterale del capo del Maestro, dietro il quale si indovinavano facilmente due occhi che sputavano veleno. Il “rompete le righe” avveniva di solito verso mezzanotte, quando il maresciallo dei carabinieri cominciava a guardare l’orologio e la banda si preparava a eseguire il brano conclusivo che tutti avevano aspettato a lungo, “Sa marc’e buffai”, che alla lettera vuol dire “la marcia del bere” e in pratica significava “tutti a casa del presidente, che ha una cantina fornita”.
  Non è che le cose andassero sempre così lisce. Il Maestro era un docente severo e specie durante le prove non risparmiava ai suoi colorite parolacce spesso interrotte da colpi di tosse grassa, che svelavano il suo passato di fumatore che ora aveva trasferito nella pipa. Ma quando urlava, per un accordo sbagliato o un attacco in ritardo, le finestre della casa di zia Giovannina, che abitava a un passo, vibravano come per il gran colpo di grancassa di Pillinu al “Miserere”, e il grido del Maestro lo udivano in tanti: ”Ricordatevi che siete musicisti non pastori, musicisti!”. Aveva davanti, e lo sapeva, due muratori, tre barbieri, un calzolaio, un sarto, sei garzoni di bottega, quattro agricoltori, qualche impiegato e via andare, fino a raggiungere i trenta titolari e l’altra decina di ragazzi che seguivano la banda, cercando di imparare. E d’altra parte, pensava guardandoli, lui cos’era stato anni prima? Così, dopo lo sfogo scuoteva la testa e sibilava: “Dai, ricominciamo”.
Dopo l’ufficio e le prove o un concerto, insomma nelle ore libere, il Maestro si dedicava alla sua attività quasi segreta e prediletta, la composizione. Legatissimo alle tradizioni, aveva recuperato antiche partiture e le aveva studiate per ricomporle nel suo linguaggio musicale che era più fresco e nuovo e ogni tanto, senza dir niente a nessuno, inseriva uno di quei brani fra quelli da eseguire in un concerto, e se qualcuno gli chiedeva spiegazioni circa l’origine di quella musica, rispondeva sempre allo stesso modo: “Eh, tu suona e basta”. Le musiche piacevano e poiché la banda cominciava a marciare finalmente come voleva lui e gli rubava meno tempo, decise di tentare quel triplo salto mortale che aveva in testa da tanto tempo e al quale stava lavorando in silenzio da quando gli avevano affidato, oltre alla “Schola cantorum” della parrocchia, anche il coro di un gruppo folkloristico che stava nascendo e che al momento si limitava a riproporre antiche canzoni del repertorio tradizionale, come facevano tanti altri. Il Maestro decise di sparigliare il gioco. Rielaborò tutti i vecchi canti e si dedicò a un suo vecchio sogno: far cantare le “launeddas”. Queste erano uno strumento antichissimo costituito da cinque canne di suono diverso e continuo che utilizzavano come cassa armonica soltanto le guance del suonatore, costretto a uno sforzo incredibile, un po’ come gli zampognari scozzesi, ma questi potevano disporre di una grande riserva d’aria e di fiato, i suonatori di “launeddas” solo appunto delle proprie guance. Ecco perché erano pochi e molto ricercati. Comunque cinque erano le canne e cinque dovevano essere le voci del coro: soprani, contralti, tenori, baritoni e bassi Compose una musica che richiamava il vecchio ballo tradizionale e s’inventò un testo che era una storia d’amore dei tempi di suo padre, con la ragazza che non voleva dare la mano al suo ragazzo per ballare, perché non erano ancora fidanzati e chissà la gente cos’avrebbe detto……Insomma, parole e musica e un titolo che le riassumeva: “Cant’e balla”
  Le prove con il coro durarono due mesi e il Maestro per l’occasione sfoderò l’artiglieria pesante. Aveva infatti tre figlie con voci stupende, due da soprano e una da contralto, che esibiva raramente e che gli servivano adesso per riequilibrare l’accompagnamento costante dei bassi, che erano robusti.e intonati. A una festa, alla quale il coro era stato invitato, fece fare tutti i canti del repertorio e alla fine sussurrò: ”Vogliamo provare anche quello? Dai, ma state attenti e guardatemi le mani, vi raccomando. Altrimenti……” Partirono i bassi con il “cant’e balla”, un accompagnamento ritmato che durava per tutto il canto e riproduceva il suono del “tumbu”, la canna bassa delle launeddas, seguirono i tenori che imploravano amore ai soprani che, subito dopo, si sottraevano al ballo, poi il canto si intrecciava col sì e il no degli amori d’altri tempi, si ripeteva più volte e finiva in un accordo di gioia finale che doveva essere il suono, unico e insostituibile, delle cinque canne, che avevano finalmente cantato. Fu un trionfo, inutile dirlo, anche se gran parte del pubblico non poteva aver capito cosa c’era dietro quella musica strana eppure così bella.
  Il “Cant’e balla” divenne la sigla di chiusura di tutte le esibizioni del gruppo come, per altri versi, la “Marc’e buffai” lo era stata della banda musicale che ormai navigava per mari tranquilli, fra inviti e riconoscimenti in tutta la provincia e anche fuori. Così il Maestro si dedicò soprattutto al coro folkloristico col quale girò l’Italia e l’Europa, fin quando non ricevette una telefonata. Convocò tutti per la sera e li accolse con l’aria del gatto che ha appena ingoiato il topo. “Vi piacerebbe sapere cosa ho da dirvi, eh?”, li sbeffeggiò. La televisione, erano stati invitati alla televisione. La trasmissione non la ricordava, ma chi se ne frega, sempre televisione era, una consacrazione. Cominciarono a prepararsi il giorno dopo. La trasmissione era importante, di quelle che radunavano mezza Italia davanti ai teleschermi e se in paese erano ancora pochi ad avere il televisore in casa, pazienza, si sarebbero arrangiati dai vicini o nei bar.
  Li attese un’accoglienza cortese ma professionale e, secondo loro, abbastanza fredda. Così cominciarono le prove malvolentieri, facendo arrabbiare non poco il Maestro: “Cantate come cani, ecco proprio così, mi sembra un bisticcio di cani!”. Intorno avevano personaggi dello spettacolo che avevano visto fino a quel momento soltanto in bianco e nero sul piccolo schermo, fra i quali uno zazzerone bianco, abbastanza curioso, che dirigeva l’orchestra della trasmissione, in maniche di camicia e ogni tanto buttava l’orecchio per seguire quel suo anziano collega in farfallino nero anche alle nove del mattino che ricopriva di improperi i suoi coristi. Durante una pausa, fece finta di avvicinarsi a qualcuno dei ragazzi imbronciati e sorridendo buttò lì: “Ma il vostro maestro è sempre così arrabbiato?” Chiacchierarono per un po’, fin quando al maestro Gianni Ferrio, gran musicista ma anche impareggiabile burlone, non si accese una lampadina. Prese un foglio di carta e una matita e chiese: “Com’è che fa quel vostro canto, l’ultimo?” Glielo canticchiarono a bassa voce, mentre lui rapidamente scriveva qualche nota sul foglio, qualche volta faceva ripetere e dopo pochi minuti disse: ”Basta così, adesso facciamo tornare il buonumore al maestro”. Si avvicinò a qualcuno della sua orchestra, gli mise il foglietto in mano e gli indicò gli altri ai quali doveva distribuirne una copia, con le dovute variazioni. I coristi lo guardavano stupefatti.
  La sera ci furono le prove generali, per lo spettacolo del giorno dopo. Il Maestro Murgia ballava da fermo, tale era l’agitazione, Gianni Ferrio fece un cenno al regista: ”Allora, andiamo con la nuova sigla?” e un gesto agli orchestrali. Tutti estrassero dal leggìo un foglio di carta scritto a matita e la musica partì. Allegro, andante, con i tromboni in accompagnamento costante e profondo, i violini che sembravano soprani, fin quando il Maestro non cominciò a dare segni di irrequietezza. Si voltava verso i vicini, faceva cenni sempre più scomposti. Poi fu visto alzarsi e avviarsi verso la pedana del maestro proprio mentre si avviava all’accordo finale. Stette lì, rigido, fin quando l’ultima nota si fu spenta, poi si rivolse direttamente al maestro: ”Scusi, ma a lei questa musica chi gliel’ha data?”.
  Ferrio scese dalla pedana sorridendo: ”Ma è la sua, maestro Murgia, l’abbiamo sentita e l’abbiamo trascritta per l’orchestra…..E’ veramente bella e il suo coro è talmente bravo…..Piuttosto, le volevo chiedere, com’è la storia di quello strumento con le cinque canne……” . Parlarono una mezz’ora delle launeddas, poi il Maestro andò via e anche Gianni Basso e Oscar Valdambrini, due grandi jazzisti che suonavano nell’orchestra RAI di Ferrio, si alzarono per salutarlo. Dopo cena si avvicinò ancora a Ferrio per raccontargli del “diabulus in musica”, quell’accordo dannato di quarta che Verdi usò una volta sola e che nella musica della sua terra era tanto comune. Si era fatto tardi, l’autista del pullman aspettava per portarli in albergo, la sera dopo c’era la trasmissione. Il Maestro salì in pullman e a quelli che lo interrogavano con lo sguardo rispose solo, fingendosi distratto: ”Eh sì, gli è piaciuta, sì….”. Scelse un posto solitario in fondo al torpedone, sistemò il farfallino nero, si mise in bocca la pipa e si addormentò. E sognò suo padre.


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