Il Parlamento di zio Eliseo
“I lavoratori non si arrenderanno mai!”
“Ma cosa ne vuoi sapere tu, che non hai lavorato mai…..”
La voce cavernosa dell’esattore Trois usciva dalla porticina che dava sulla via Roma, a un passo da piazza della Chiesa, il centro del paese. Al bar di Perra, proprio di fianco alla porticina, qualcuno cominciava già ad affacciarsi, come per uno spettacolo atteso: ”Politica, parlano di politica”ß.
La sartoria di zio Eliseo era una stanza, a occhio di tre metri per quattro, che divideva col fratello Ezechiele. La mattina i due riuscivano più o meno a lavorare con una certa alacrità, imbastendo, cucendo e tagliando le stoffe che gli venivano affidate, perché sapevano che il pomeriggio sarebbero stati più impegnati a dirimere dibattiti ad alta tensione. Perché fra le 5 e le 7, l’ora dell’arrivo delle corriere dalla città e della conclusione del lavoro per chi restava in paese, cominciavano le discussioni. I protagonisti erano quasi sempre gli stessi, un eventuale intruso sarebbe stato liquidato sbrigativamente (“E a te chi ha chiesto di parlare?”), ma i toni variavano a seconda del tema della giornata o di come si erano lasciati la sera prima.
C’era ziu Cesarino Cocco, il liberale storico per il quale Malagodi stava appena un gradino sotto san Pietro, tziu Luiginu Corda, un vecchio socialdemocratico che aveva deposto Saragat fra i padri della patria, prima ancora che venisse eletto fra mille mugugni presidente della Repubblica, c’era il vecchio Cicito Timpanari, un ciabattino socialista che si reggeva su una gamba e una stampella, dall’alto delle quali impartiva lezioni di socialismo storico. E poi c’erano il nucleo della maggioranza e dell’opposizione, l’ex sindaco Eugenio Broi, democristiano battuto alle ultime elezioni, e il vincitore comunista, l’operaio Scattosu, che rappresentava in quella sede il nuovo sindaco, Eliseo Frau, che facendo a sua volta il sarto non poteva eleggere a centro del dibattito una sede di concorrenti. Per cui vi inviava Scattosu che, a parte il soprannome che lo penalizzava ( in dialetto vuol dire “rognoso”), aveva grinta e dialettica sufficienti, a parte qualche intralcio di sintassi, per tener testa a chiunque.
Il dibattito nasceva dal nulla e al nulla i contendenti si appigliavano per far valere le loro ragioni che consistevano solitamente nel far valere a tutti i costi i diritti della classe operaia, nel difendere sempre a tutti i costi i diritti dei cosiddetti padroni (“Che padroni non sono, lavorano come gli operai, al loro fianco e anche di più. Io mi alzo ogni mattina alle quattro”, tuonava, tziu Cesarino), nell’innalzare sopra ogni cosa la democrazia e la libertà, che pochi riuscivano a decifrare, avendole intorno come l’aria e l’acqua. E soprattutto la Chiesa, simulacro intoccabile per alcuni, complice dell’imperialismo per gli altri. Per cui il raro passaggio in strada del parroco, don Axedu, suscitava riverenti scappellate degli uni e ironiche e scontate battute degli altri (“axedu” in dialetto significa aceto e, a parte tutto, il carattere dell’uomo non era dei migliori).
In questo ambiente, che qualche anno dopo e in ben altro ambiente avrebbe fatto la felicità e la fortuna di Giovannino Guareschi, zio Eliseo si barcamenava come poteva, tenendo anche conto del fatto che parte dei contendenti erano anche suoi clienti. Ma se la cavava, mentre suo fratello aveva scelto il profilo più basso, cuciva e taceva. Lui invece qualche volta interloquiva e pur senza mai alzare la voce, diceva la sua e quando non era d’accordo scuoteva la testa senza smettere di cucire. Dall’intensità dello scuotimento si comprendeva quanto il suo disaccordo fosse profondo ma il volume e l’intensità delle voci dei suoi interlocutori ne cancellavano l’esistenza. Fin quando, alla fine di un’estate neppure troppo calda, non giunse qualche notizia sull’invasione dell’Ungheria.
“Hai visto la porcata che hanno fatto gli americani?”, buttò lì Scattosu dopo due giorni di silenzio.
Lo aspettavano al varco:”No, e cos’hanno fatto?”, rispose pronto l’esattore Trois al quale si era rivolto. Gli altri finsero distrazione, zio Eliseo ripiegò la stoffa alla quale lavorava.
“Hanno cercato di invadere l’Ungheria, con l’aiuto di alcuni traditori……”
“Ma davvero?”
“Ma non li leggete i giornali ? Per fortuna le truppe alleate del Patto di Varsavia, con l’aiuto dell’Armata Rossa, li hanno respinti…….”
Le urla si sentirono, racconta chi c’era, fino al laboratorio di Eleonora Palmas, che insegnava, duecento metri più in là, alle giovani del paese l’arte di ricamare cestini di paglia e fieno, che venivano poi venduti nelle fiere o esposti nei negozi in città, perché erano belli davvero. Dissero: ” Si sentono le voci da zio Eliseo, stanno bisticciando….”
E in realtà, nella stanzetta se n’erano sentite di ogni colore, tanto che perfino zio Eliseo, brandendo un grosso ago da lana come una scimitarra si gettò nella mischia e con una vocina esile che nessuno sentì gridò: ”Stanno ammazzando quelli come voi!”. Il naso di Scattosu e dell’esattore erano a pochi centimetri, quando sulla porta apparve la sagoma incerta del vecchio Timpanari. Gli fecero largo e si cercò una sedia in fondo alla stanza, dove si sedette ed estrasse da una scatola d’argento arrugginito una sigaretta fatta a mano che infilò in un bocchino scalcagnato e accese con un vecchio zippo a benzina che fumava nero come la corriera nelle mattine d’inverno.
Scattosu, in minoranza fino a quel momento, riprese colore: ” Compagno, diglielo tu…..”
Timpanari lo interruppe con uno sguardo: ß”Il compagno Nenni ha detto che da ieri non siamo più compagni. Il Fronte Popolare è rotto”. Era il novembre 1956 e anche nel Parlamentino di zio Eliseo erano arrivate le piccole schegge di una tragedia storica. Zio Ezechiele, la sera, chiudendo la porta della sartoria disse al fratello: ”Da domani qua dentro non si parla più di politica”: Eliseo fece cenno di sì, che aveva ragione. Scattosu e l’esattore Trois ripresero a salutarsi qualche tempo dopo, in una serata di vento gelido in cui si ritrovarono a tentare di uscire contemporaneamente dalla porticina della sartoria. “Mi sa che nevica”, disse uno. “Anche a me”, rispose l’altro e, dopo un attimo di incertezza, “Beh, buon Natale”. “Buon Natale”.
Romano Asuni
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