Pane, nutella e zi’Antioco
Ricordo che portavo i pantaloni alla zuava e un maglione di lana grezza a strisce gialle e marrone, probabilmente ereditato da mio fratello più grande. Capitava allora. I pantaloni erano una via di mezzo fra l’infanzia e l’adolescenza, una specie di “vorrei ma non posso” che non ti consegnava ancora all’età più matura ma non ti costringeva neppure nei confini di un’infanzia ormai abbandonata. Lo avevo potuto verificare di persona superando l’esame più severo che allora mi potesse capitare, quello di zi’Antioco. “Tui, benni a innoi”, tu, vieni qui, e non era un invito, era un comando. Mi squadrò con un sorrisetto beffardo, squadrandomi da capo a piedi: ”Ma tua madre aveva finito la stoffa?”. Arrossii guardandomi i pantaloni. E lui, rivolto al suo aiutante: ” Eh, il fatto è che stanno crescendo. Mi’, tagliagli una fettina di craxioleddu”.
A chi è cresciuto a pane e nutella o, peggio, a merendine raffinate senza grassi e colesterolo, devo la spiegazione. Zi’Antioco Serra, fratello gemello di mia madre, era macellaio e commerciante di bestiame fra i più noti e benestanti del paese. Ed era il mio fornitore ufficiale di craxioleddu, il bordino più morbido della cotenna del maiale, con un filo di lardo attaccato, dal sapore di bruciacchiato, che si dava ai ragazzini perché masticassero a lungo e stessero buoni. Era un regalo ambitissimo e raro che di solito si riceveva per premio e più di una volta sostituiva la merenda, costituendo un rustico ma gustosissimo chewing-gum, una cosa che non avevamo ancora avuto il piacere di conoscere e con la quale in ogni caso non c’era gara, vinceva craxioleddu 3-0.
A parte quei saltuari e ben mimetizzati momenti di confidenza, però, zi’Antioco era uomo ruvido e senza fronzoli che non mandava mai a dire niente a nessuno, nel senso che se le doveva cantare preferiva farlo direttamente e spesso non lesinava nemmeno sugli acuti. “Arrogh’e tontu”, pezzo di scemo, era l’espressione più ricorrente e “Arrogh’e moll’e zugu”, pezzo di osso del collo, la condanna irrimediabile di chi non dimostrava un’intelligenza adeguata. Così bocciò la candidatura ad assessore comunale di un pretendente che secondo lui non meritava di stare a fianco di suo figlio, candidato sindaco in una lotta senza esclusione di colpi. Eletto il figlio, zi’Antioco si calmò un po’, ma mica tanto. Riprese il suo tran tran, che era duro, fatto di sveglie a metà della notte, lavoro e discussioni politiche di giorno. Alla famiglia, la sera e le feste comandate ch’erano sacre e inviolabili. Giacca e cravatta, non passava inosservato, era Tziu Antiogu Serra con la maiuscola, specie quando seguiva la banda comunale fino all’ingresso della chiesa. “Est passendi su meri ”, sta passando il padrone, gli sibilava dietro qualche invidioso. Per risposta, non scuoteva neppure le spalle.
Poche volte mi chiese un favore, una piccola cosa da ragazzi: ”Portami questo pacchetto, per favore, a casa di ...”. Una volta non potei resistere alla tentazione e aprii il pacchetto, appena chiuso a mano. C’erano i sogni proibiti dei ragazzi e anche di qualcuno più in la con gli anni: una coixedda e due origas. In altre parole una coda e due orecchie di maiale, debitamente abbrustolite, che potevano essere consumate crude, a fettine, se si avevano denti buoni, o fatte bollire, una per volta, con il minestrone, il pasto più difffuso e popolare dell’epoca, al quale attribuivano un magnifico sapore e profumo di affumicato che faceva schiattare d’invidia i vicini, visto che il profumo passava da un cortile all’altro: ”Mi’, dev’essere passato Antiogu”, era il commento. Però, piccole beneficenze a parte, l’uomo nascondeva qualcosa e ci volle il caso e una mia disobbedienza per farmela scoprire. Mia nonna mi aveva spedito a comprare il latte col solito pentolino, con l’impegno di tornare subito indietro. Ma la tentazione di tirare due calci a una palla di gomma con la quale si esercitavano altri monelli, mi fece depositare il pentolino per terra, come un improbabile palo della porta, il maglione per un altro, e mi gettai nella mischia. Il campo era un vicoletto cieco e sassoso che metteva a dura prova le scarpe di chi le aveva. Era l’imbrunire e mi stavo chinando a raccogliere la palla, quando lo vidi entrare nel vicolo. Camminava a passo svelto, un pacco sotto il braccio, diretto al primo portoncino che si apriva sulla strada. Restai chino, con le mani sul pentolino del latte, pronto a inventarmi una scusa qualunque. Non mi vide, entrò e chiuse il portone alle sue spalle e il mio sollievo cominciò a mischiarsi con un’inevitabile curiosità.
“Dai, tira”, mi gridavano. “No, aspetta, è mio zio”, risposi.
“Lo so, viene qui tutte le settimane. E anche nel’altra casa in fondo alla strada, dove vivono quelle due sorelle vecchie. Qui abita quell’aiutante che aveva al macello tanti anni fa, con la moglie, adesso è anziano e invalido, non cammina più”, mi spiegò il più grande del gruppo, che abitava da quelle parti.
Fu allora che uscì e mi vide. E per la prima volta scorsi nei suoi occhi un’ombra di rammarico. Un attimo, poi:” Tui benni a innoi”, vieni qui, il tono di sempre. Alzò lo sguardo e mi poggiò una mano sulla spalla: “ Passa domani da me ho il craxioleddu fresco. Ma, fammi il favore, cittu mi’, anche con tua madre”. Zitto, eh. E il padrone del paese si avviò a passo svelto verso casa sua, poco lontano.
Romano Asuni
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