Le stelle di Doddoi
Nessuno aveva mai saputo come si chiamasse realmente, se non forse l’ufficiale d’anagrafe, che però aveva altre cose da sbrigare e se ne fregava, tanto, pensava, lo conoscevano tutti. Così Doddoi rimase Doddoi, per cinquant’anni e più, quando morì, un piccolo monumento di un paese che non se ne poteva consentire di grandi. Il suo compito era spazzare via quanto quei maleducati dei suoi compaesani lasciavano nella piazza del Municipio e nei dintorni, la domenica e le feste comandate. Così spazzava via le cartacce a Natale e Pasqua, i coriandoli che riempivano le strade di Carnevale e le foglie e i rametti di mirto e menta per le feste patronali, quando li buttavano per strada per profumare il passaggio dei santi.
Detta così, potrebbe sembrare che Doddoi fosse soltanto lo spazzino del paese, o l’operatore ecologico come si direbbe oggi, invece era molto di più. Perché proprio in quelle giornate di festa, completato il suo lavoro poco dopo l’alba, il piccolo monumento portava il suo metro e mezzo scarso all’uscita del paese, apriva il lucchetto arrugginito di una casupola che sembrava abbandonata e si dedicava a preparare il suo spettacolo.
Bisogna sapere che ai tempi, più o meno mezzo secolo fa, le feste patronali e anche quelle dei santi importanti che patroni non erano, al paese si concludevano sempre con una lunga processione. Accompagnata dai canti alternati degli uomini e delle donne, che sfilavano compostamente, la processione si snodava seguita dai confratelli con la loro divisa bianca e il cappuccio, dai chierichetti e il sacerdote che precedevano il cocchio o la statua del santo. Il cocchio era solitamente tirato da un giogo di buoi che addolcivano la loro mole possente con due limoni infilati vezzosamente sulla punta delle corna, quasi a renderle inoffensive. Dietro il cocchio, in ordine sparso, la folla dei fedeli che si distingueva per devozione da quelli che facevano semplicemente ala al corteo. Ma prima di tutti lui, Doddoi, tre, quattro metri davanti agli altri.
Perché stesse lì lo sapevano bene i ragazzini che ne seguivano le mosse come una magia, da quando estraeva dal mazzo il cilindretto legato a un lungo giunco, che sembrava una coda sproporzionata, lo puntava verso il cielo, avvicinava la sigaretta perennemente accesa a una miccia cortissima e tenendo delicatamente fra le dita il cilindretto lo faceva decollare verso l’alto in una scia di scintille che parevano stelline, specie se il cielo trascolorava verso il tramonto. Il botto era forte e alto, se il lancio del razzo era stato ben calibrato, ma guai a farlo cadere fra la folla, perché poteva provocare qualche spavento e anche qualche bruciatura.
A Doddoi però era capitato raramente, per cui l’incombenza gli veniva affidata senza troppi patemi, anzi come un riconoscimento alla sua perizia che spesso comprendeva anche il “clou” dei festeggiamenti, “sa carrera”. Questa era una lunga corda intrecciata con una miccia, lungo la quale venivano disposte bombette scoppiettanti e, a intervalli regolari, una bomba più forte. La difficoltà stava nel finale: erano tre esplosioni più forti di tutte le altre che dovevano però coincidere col momento culminante della messa che concludeva la processione. E poiché “sa carrera” veniva sistemata regolarmente a poca distanza dal grande portone della chiesa, era come esibirsi in un triplo salto mortale davanti a tutto il paese. Bisognava far coincidere i tre colpi finali col momento dell’Elevazione, cioè “sa carrera” doveva concludersi nel momento in cui il sacerdote alzava l’ostia per la consacrazione. Un compito improbo perché i due, Doddoi e il prete, non potevano vedersi e poi il prete poteva essere più o meno lento, la miccia magari un po’ umida e insomma qualche secondo di distacco, in più o in meno, c’era sempre. Quando poi capitava la perfezione dell’ostia innalzata in coincidenza con i tre colpi finali, non era raro che dalla folla all’esterno della chiesa partisse un ammirato battimani.
Doddoi lo ricevette poche volte, quanto bastava però per farlo inorgoglire e fargli esibire quegli applausi come medaglie al valore. Quando morì, molti anni dopo, quando da pensionato continuava a vantare i suoi successi alla carrera, scrissero sulla sua croce “Cappai Giuseppe” e la data di nascita e di morte. Solo il farmacista, il dottor Lobina, si accorse qualche anno dopo che su quella lapide nessuno posava mai un fiore, neppure nei giorni dei Morti. Così prese una matita rossa e aggiunse sotto il nome sconosciuto la scritta “Doddoi”, perché tutti sapessero. I fiori non mancarono più.
Romano Asuni
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