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   Quando in Sardegna piove...

  Negli ultimi anni, mi avevano assicurato, in Sardegna piove tanto, molto davvero rispetto alle estati torride di una trentina d’anni fa, quando si inaugurava la stagione del mare possibilmente il primo di maggio, e si finiva a novembre, giusto per onorare i morti. Nel mezzo c’era quella che doveva essere la stagione delle piogge in una regione temperata, autunno e inverno, ma non era proprio così. La pioggia era una sconosciuta che passava ogni tanto e lasciava tracce esigue o torrenziali su terre più abituate al morso del sole di mezzogiorno. Era tanto sconosciuta che nel dialetto sardo non esiste la parola pioggia. Si può cercare l’equivalente, le parole che in modo diverso possono rappresentarla, il verbo “proi”, piovere in campidanese, “ abba de su chelu “, acqua dal cielo, nel dolcissimo logudorese, ma il termine pioggia proprio no, non c’è.
   Così mi è capitato, due o tre anni fa, di sbarcare a giugno nel nord dell’isola, con moglie e macchina, per attraversarla e raggiungere Cagliari. “Vedrai - le avevo detto - tutto giallo, è già cominciata l’estate da un mese”. Costeggiammo il mare della Gallura e ci inoltrammo poi verso l’interno e i primi contrafforti della Barbagia. Vedevo un po’ tanto verde e giallo, l’erba e i margheritoni sul bordo della strada, verde e bianco delle margheritine nei campi. E gli alberi, le grandi querce da sughero e gli enormi lecci che sembravano essersi colorati di verde fresco, intenso e alzati verso quel cielo azzurrissimo che ci accompagnava. Un ragazzino vestito da pastore, all’ingresso di una strettoia, ci sventolò davanti al naso un cesto di funghi e un mazzo d’asparagi.<br>    Sobbalzai, erano del tutto fuori stagione, cos’era capitato?
  Ebbi la risposta sull’altopiano di Campeda, ai confini del Marghine, una delle ultime asperità prima d’affacciarsi verso la grande pianura del Campidano, verso Cagliari. Il grande altopiano ruggiva di colori, dal verde dominante dell’erba al rosso dei papaveri, al giallo delle margherite selvatiche, all’azzurro degli asfodeli. E quel bianco strano, cos’è quel bianco? I fiori del mirto, quell’arbusto profumatissimo che a dicembre avrebbe dato bacche nere e nutrienti ai merli e ai tordi. Mi fermai per scendere a guardare e il profumo mi colse intenso, inatteso, da stordire. Tornai in macchina quasi subito.
   “Forse abbiamo sbagliato strada”, rise mia moglie.
   “E’ che non ci sono più abituato”, replicai poco convinto.
   Non era vero. Sapevo che era un saluto e un rimprovero.

Romano Asuni
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