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Quando scompare un amico perdi irrimediabilmente una parte di te stesso, della tua memoria di vita, della tua stessa storia… L'8 maggio 2012, se ne è andato Romano Asuni con il quale avevo condiviso una lunga stagione di bel giornalismo e del quale avevo avuto il piacere di pubblicare in eBook, qualche anno fa, la sua prima opera di narrativa: «Il Ritorno», una bella raccolta di racconti in cui lui, sardo emigrato giornalisticamente a Milano, aveva consumato la nostalgia della sua terra d'origine. Quella era stata l'occasione per rinsaldare quei sentimenti di stima e di affetto che sono alle radici di ogni vera amicizia. Ed ora, ora che si è spento, non resta che il dolore, lo smarrimento, la nostalgia della sua acuta intelligenza. Ciao, Romano. L.S.
Quando la Memoria è protagonista
Borgosesia (VC) - 1 Ottobre 2009
Tornare alle Radici
di Romano Asuni
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L'autore di «Il Ritorno - Boìcu ed altre storie», splendida raccolta di racconti che diventano romanzo pubblicata in eBook ed Ex Libris, dialoga con i lettori de L'ISTRICE lungo il filo della memoria. Prosegue e rinnova così il discorso aperto dal suo libro che segna il felice esordio nella narrativa di questo famoso giornalista che dalla Sardegna è approdato professionalmente a Milano diventando una delle grandi firme Amica, laDomenica del Corriere, il Corriere d'Informazione fino a dirigere Salve, il mensile di medicina e salute della RCS. Naturalmente i lettori di queste sue note periodiche non possono lasciarsi sfuggire la lettura del suo libro che può giungere in pochi click sullo schermo del vostro computer oppure arrivare per posta a casa in una Copia Ex Libris, in volume stampata appositamente per chi la acquista.
Guarda la VideoPresentazione dell'Editore di Il Ritorno - Boìcu e altre storie >>>

  Calcio di rigore

  "Non c’era -urlò- non c’era...!”
  L’arbitro lo guardò appena e continuò a indicare il dischetto del rigore col dito puntato come una condanna.
  “Ma, arbitro…”, provò ad insistere.
  “Vai in porta”, gli rispose.
  Il portiere si rivolse allora verso i suoi compagni come a dire che lui aveva fatto il possibile ma quello non ci aveva voluto sentire e si spiegava, era lo stesso che aveva dato un sacco di punizioni contro quando avevano pareggiato col S. Eulalia, 3-3 per una punizione che non c’era, neppure quella. Buttò i guanti a terra, con rabbia, e si avviò lentamente verso la porta, tanto pararlo era praticamente impossibile, guanti o non guanti. Benigno, alle sue spalle, li raccolse e gli andò dietro, senza chiamarlo. Sapeva che quando era così bisognava lasciarlo stare, si rischiava una parolaccia o peggio.
  La striscia bianca della porta era tracciata con la calce e, mentre Benigno gli gettava i guanti vicino al palo, lui la calpestò con rabbia apparente ma in realtà voleva soltanto segnare il punto centrale della porta, dove avrebbe dovuto fermarsi per tentare di fermare il tiro. Si voltò indietro e vide che gli avversari perdevano tempo a cercare il pallone che qualche spiritoso aveva lanciato lontano, l’arbitro aveva lasciato fare e adesso fischiava inutilmente perché gli fosse restituito. O forse lo facevano per innervosirlo. Decise di rendere pan per focaccia e si avviò verso la base del palo dove il suo compagno gli aveva gettato i guanti. Si chinò a raccoglierli, con un gesto lento, e cominciò a infilarli, sempre voltando le spalle al centro del campo, come se non gli interessasse quello che accadeva dietro di lui. Tentava di mentire, almeno agli altri.
  Erano quasi alla fine del secondo tempo e avevano trascinato fin lì un faticoso 1-1 nato da un goal su punizione deviato per gli altri e da una sua mezza papera, ma nessuno lo aveva rimproverato, anche perché poco prima aveva salvato una palla che pareva impossibile, inarcandosi all’indietro, come gli riusciva qualche volta solo in allenamento, ma in partita non l’aveva mai fatto. Così, aveva sentito l’ooohhh! di meraviglia del pubblico e si era reso conto d’aver fatto una bella parata, ma adesso non gliene importava niente. Un rigore voleva dire partita persa, penultimi in classifica e quei pochi soldi che gli dovevano dare che si allontanavano. Perché lì funzionava così, tanto a partita vinta, quando l’incasso lo permetteva, metà per il pareggio e qualche urlo negli spogliatoi quando si perdeva con la minaccia di cacciare via qualcuno o di ritirare la squadra dal campionato, perché “se si gioca così non ne vale la pena”. Il portiere però pensava


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"Il Ritorno - Boìcu e altre storie" di Romano Asuni

anche ad Anna con la quale aveva appuntamento in serata e che lo avrebbe preso in giro davanti a tutti e magari gli avrebbe ricordato che Carlo sì, lui vinceva spesso, e segnava anche i goal, il portiere invece li poteva soltanto incassare, insomma era condannato a fare la parte del babbeo. Più di una volta gli aveva chiesto: ”Ma insomma, non potresti giocare da qualche altra parte, così non danno a te la colpa ogni volta che perdete?”. E lui a spiegarle inutilmente che il suo era un ruolo diverso e che lei non poteva comprendere cosa significasse fermare un pallone scagliato con forza verso la porta, quando sai che l’ultimo ostacolo fra lui e il goal sei solo tu, o volare, sì proprio volare, per prendere quella palla maledetta o schiaffeggiarla come una donna infedele per mandarla fuori, perché non violi quella rete che sino a quel momento avevi difeso con tutte le forze, fino a farti male. Le ricordava quella volta che si era dovuto buttare come un pazzo fra i piedi di Gigino, proprio quello squinternato che mulinava i piedi come una falciatrice e se non colpiva la palla colpiva qualsiasi cosa fosse nei dintorni, terreno o uomo non faceva differenza. Lui si era buttato e aveva abbrancato il pallone, lo aveva stretto al petto raggomitolandosi, e il piede storto di quell’altro lo aveva colpito duramente al braccio facendogli molto male, ma lui non aveva mollato la palla, anzi l’aveva stretta anche di più ed era rimasto a terra, così l’arbitro aveva fischiato e tutti gli avevano fatto i complimenti. E anche quello non era come segnare un goal? “Sì, ma il punto non ve lo danno”, lo disarmava lei, elementare ed efficace, come tutti quelli che non sanno.
  Meglio pensare alla nonna che non lo prendeva mai in giro e non lo rimproverava, anzi non aveva neppure fatto la spia con la mamma quando cadendo in campo si era fatto una sbucciatura che sembrava un campo arato e per tre giorni gliel’aveva curata con olio e l’aceto, come l’insalata, però alla fine era guarita e quando aveva tolto la benda non aveva neppure macchiato il maglione nuovo. Gliel’avevano regalato per Natale e non voleva rovinarlo, altrimenti chi la sentiva la mamma. Curiosa quella nonnetta e buona quanto si può essere buoni da vecchi, perché prima non è possibile, da giovani si è furbi, bugiardi, anche cattivi quando è il caso e si vuole vincere per forza e si crede magari che i vecchi non capiscano o non se ne accorgano. E invece ci guardano con quegli occhi che vedono lontano perché guardano da lontano. Brava la nonna, se esisteva una possibilità su mille di parare quel rigore lo avrebbe dedicato a lei.
  Si avviò verso il centro della porta, dove avrebbe dovuto stare, e guardò appena gli altri che già si disponevano verso il limite dell’area. Facce rassegnate, pensò per un attimo, e facce sorridenti dall’altra parte, come quelli che sentono d’avere già il sorcio in bocca. E io sarei il sorcio, pensò. E si rassegnò all’idea quando vide avvicinarsi al dischetto del rigore, col pallone in mano, proprio quello che non avrebbe voluto vedere, quel Tola col quale nella partita d’andata c’era stata anche una questione, roba da poco, ma si sa qualche rimasuglio resta fra una parola in più e un gesto che era parso una minaccia. Insomma, era andata che lui era uscito per abbrancare un pallone a terra e proprio quando si stava rialzando col pallone fra le braccia l’ altro lo aveva sgambettato, facendolo ricadere come uno scemo, il naso sbucciato contro il pallone e tutti a ridere. L’arbitro aveva fischiato, ma il gesto restava: ”Te la faccio pagare”, gli sibilò rialzandosi. E ci aveva provato poco dopo, riuscendoci, quando la palla era volata nell’area piccola e lui le era saltato incontro per afferrarla e portarsela al petto, mentre l’altro si preparava a colpirla di testa, a colpo sicuro. La testa del centravanti colpì il gomito del portiere e il ragazzo cadde a terra con un grido soffocato che preoccupò tutti, perché di solito si urla soltanto per gli altri e quando ci si è fatti male davvero si cade in silenzio o frenando l’urlo per non dare soddisfazione a chi ti aveva colpito. Così Tola cadde a terra e restò per un po’ in ginocchio massaggiandosi l’occhio destro che si andava pian piano gonfiando. Respinse le mani che l’aiutavano a rialzarsi e guardò verso il portiere che si apprestava a rimettere la palla, come se niente fosse accaduto. Era un modo per dirgli: alla prossima. E ora si ritrovavano davanti, col pallone nel mezzo, divisi da un calcio di rigore e dalle altre questioni non dimenticate. Erano passati mesi, eppure Tola guardò il portiere con il mezzo sorriso che di solito il boia dedica al poveretto sul quale sta per calare la lama della ghigliottina, a mezzo fra la pietà e la derisione. Il portiere non lo guardò neppure, conosceva lo sguardo e il significato. Ma cercò dentro di sé il modo per rendergli più difficile l’esecuzione della condanna. Prima gli voltò le spalle poi, quando l’altro si chinò per depositare il pallone sul dischetto disegnato con la calce, gli si avvicinò, a passo lento, come per controllare quello che stava facendo. Si guardarono per un attimo: il portiere sfidava, l’altro scherniva, aveva lui in mano la pistola. Il difensore si voltò, tornando a passo lento verso la linea di porta e infilandosi i guanti. L’altro gli rese la pariglia allontanandosi dal pallone e chiacchierando con i compagni. L’arbitro li richiamò con due fischi imperiosi: “ Volete giocare?”.
  Il momento era arrivato, il portiere si voltò verso Tola che sfiorò appena con la mano il pallone sul dischetto, come volesse sistemarlo, ma forse era solo un esorcismo. Fece tre o quattro passi indietro e alzò la testa come a dire che era pronto. Il portiere decise di farla corta anche lui, proprio mentre segnava con le scarpette il gesso della linea di porta. Valeva la pena di prolungare l’agonia? E perché? Che lo facessero quel goal e che il presidente si tenesse pure i soldi, Anna avrebbe tentato di recuperarla giovedì sera, al compleanno della cugina, la nonna avrebbe capito come tante altre volte e se non lo avessero tenuto in squadra, tanti saluti, poteva sempre giocare nel Settimo, anche se erano in una serie inferiore, e avrebbe potuto studiare di più, così anche sua madre sarebbe stata contenta. Batté la punta delle scarpette a terra, come per ripulirle da un fango che non c’era, si abbassò le maniche del maglione, nel caso cadesse, si piazzò al centro della porta e guardò l’arbitro, era pronto. Non fece neppure in tempo a vedere il viso dell’attaccante pronto al tiro, solo i piedi che si avvicinavano al pallone. E il fischio.
  Volò e non sapeva perché e come. Non sapeva se aveva seguito il piede dell’avversario che tirava o la direzione del primo metro del pallone quando partì. Non sapeva cosa lo avesse spinto a buttarsi sulla destra, un angolo per lui odioso, dove aveva preso tanti goal, anzi l’ultimo gli era passato proprio sotto la pancia e aveva fatto una figuraccia. Volò e sentì la sua schiena inarcarsi e il braccio tendersi e poi, visto che non ci arrivava da solo, chiedere aiuto all’altro, il sinistro. E gli parve che questo si allungasse sempre di più, sempre di più….Quando sentì la pelle del guanto schiaffeggiare il duro del pallone respirò, si lasciò andare e smise di volare. Non fece neppure in tempo a vedere Tola dare un calcio di rabbia alla terra del campo e sentire l’urlo strozzato della folla, i soliti cinquanta o sessanta amici. Cadde a terra e la testa gli batté sul palo. Sentiva, capiva, ma restò lì, con gli occhi chiusi. Lo portarono negli spogliatoi a braccia, in quattro, e solo quando si sentì posare sulla panca aprì gli occhi e disse:” La porta…”. Sentì Ginella, il massaggiatore largo come un armadio e alto come uno sgabello, che gli ripeteva:” Stai calmo, stai calmo, ... non ti sei fatto niente. In porta ci va Nazario che è il più alto, poi la partita è quasi finita... Ma come hai fatto a prendere quel pallone?”. Sorrise, mentre i tre fischi dell’arbitro arrivarono fin dentro la stanza che faceva da spogliatoio, partita finita, squadra salva, forse sarebbero arrivati anche un po’ di soldi. Si sedette sulla panca dov’era rimasto sdraiato fino a quel momento, sfregandosi un ginocchio che gli faceva male. Ginella non lo mollava: ”Il presidente ha detto che ti vuol parlare, dopo, e c’è anche una ragazza che continua a chiedere come stai, mi pare si chiami Anna, la figlia del segretario comunale, ma come cavolo hai fatto a prendere quel pallone …?”.
  Si alzò in piedi, raccolse i guanti e solo allora si accorse che il maglione sul fianco destro era consumato, come mangiato da quel terreno infame contro il quale aveva strisciato, ricadendo. Invocò la sua santa protettrice.
  “Pensavo a mia nonna”, rispose. Ginella lo guardò e non rise neppure.

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